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Storia di un giovane sieropositivo e della sua lotta solitaria contro i pregiudizi
Ogni anno, il primo dicembre cade la giornata per la lotta all’HIV; una ricorrenza su cui in questi anni l’attenzione sta scemando, tanto che si ha l’impressione che questo virus, e L’AIDS, stiano ritornando problema “d’altri”: parti emarginate della nostra società o popolazioni povere di paesi del terzo mondo. Le poche informazioni che arrivano dai media parlano di una malattia cronicizzata con successo, di un’alta qualità di vita. Ogni mese, annunci sensazionalistici su qualche nuova possibilità di cura attraversano i giornali e i notiziari, per poi svanire in un rumore di fondo cui quasi nessuno fa caso. Lasciate indietro, ammutolite, vivono migliaia e migliaia di persone, che gestiscono la loro condizione in solitudine. Secondo il bollettino distribuito dall’Istituto Superiore della Sanità, a fronte di un totale nazionale annuo di quasi 3500 nuovi sieropositivi, nel 2016, solo in Piemonte, sono state diagnosticate 253 nuove infezioni di HIV; inoltre, soprattutto per un omosessuale, la parte più dolorosa e difficile da affrontare è il giudizio della società, e non la malattia in sé. A noi di Grandaqueer è stato concesso l’onore di parlare con una di queste persone, che ringraziamo per aver avuto la fiducia e il coraggio di condividere con noi una storia che parla di una grande forza, e in parte di una malinconia data dalla solitudine.
Siamo stati accolti una domenica sera nell’appartamento di un nostro amico, che ha scelto di farsi chiamare Andrea: un giovane uomo molto curato e simpatico, leggermente teso, che nelle due ore successive si è aperto con sincerità e franchezza su una parte molto dolorosa della sua vita. Di tutte le cose che ci ha raccontato, alcuni passaggi ci hanno colpito particolarmente:
Il motivo per cui hai concesso questa intervista?
“Perché ho notato che al giorno d’oggi non se ne parla più.  Inoltre sempre più persone chiedono di fare sesso senza preservativo, soprattutto fra i più giovani. Infine, sono sempre solo, anche quando vado a fare i controlli periodici: già il fatto di poterlo dire a qualcuno mi fa stare meglio.”
Sarà stato difficile..
“All’inizio avevo paura di tutto.. poi dopo un po’ ti fai le ossa, te la fai scivolare addosso. Anche perché ho cominciato quasi subito la cura, e non sono stato mai male”
Fin dai primi minuti si delineano i due temi principali della nostra chiacchierata: la sua solitudine e la forza che ha avuto nell’affrontare una situazione che all’inizio lo aveva sconvolto. Ci ha raccontato in seguito che ” All’inizio avevo paura di tutto: non sapendo nulla non volevo che nessuno bevesse al mio bicchiere, avevo paura ad usare gli stessi asciugamani dei miei famigliari; pensavo che sarei durato pochissimo. All’inizio senti il bisogno di stare più isolato che puoi
Tutte queste paure che trasformano radicalmente la vita quotidiana ha scoperto in seguito, da solo, che erano false: è riconosciuto da tempo che l’HIV si può trasmettere solo attraverso rapporti sessuali non protetti con scambio di sangue o sperma, e che nulla si rischia nel baciare o entrare in contatto con le cose usate da un sieropositivo. Una relativa tranquillità che il nostro amico si è guadagnato passo passo, in mesi di perfetta solitudine. Stato d’animo che lo ha accompagnato in tutti gli anni trascorsi dal 2012 ad oggi: al momento, a parte il suo ex compagno, sappiamo della sua condizione solo noi due che abbiamo parlato con lui. Ha incontrato su internet le persone con cui si è riuscito ad aprire, e con cui è riuscito a scambiarsi confidenze e consigli; persone che ha scelto appositamente fra quelle che gli ispiravano più fiducia, o che manifestavano la loro condizione nei loro profili sui social o sulle chat di incontri come, soprattutto, Planet Romeo.
Abbiamo ascoltato il suo racconto divertito di un viaggio a Roma in cui fu organizzata una serie di incontri e di feste fra ragazzi gay sieropositivi, dove ha avuto l’occasione di incontrare persone che vivevano da molto tempo, serenamente e in salute la loro vita, e ha trovato speranza e leggerezza in un periodo in cui aveva scoperto da poco di essere stato infettato. Un suo consiglio ai ragazzi che hanno appena scoperto la loro sieropositività è di “cercare su internet delle persone che abbiano avuto stessa esperienza e di chiedere consiglio: io quando ne trovo li aiuto”, anche se ha imparato sulla sua pelle che a volte, proprio qui in provincia di Cuneo,  essere troppo sinceri può essere rischioso: come quando alla visita per il rinnovo della patente il dottore di turno voleva presentare, senza alcun motivo, il suo caso alla commissione medica. C’è davvero molta ignoranza e menefreghismo, secondo le sue parole, soprattutto qui in provincia, anche fra gli omosessuali:
“C’è molta vergogna e molta invidia; ognuno cerca di guadagnarsi da solo il paradiso e non c’è il desiderio di aiutare gli altri, non c’è l’idea di crescere assieme o di costruire una comunità.  Anche se soprattutto fra di noi una rete di amici attorno è tutto”
Mentre ci raccontava queste cose, il suo tono era spassionato, di una persona che riporta fatti passati e risolti, che fanno parte di una quotidianità ormai rodata. Questo più di ogni altra cosa ha dato a me e al ragazzo che mi ha accompagnato la dimensione della sofferenza che quest’uomo ha dovuto affrontare, e la profonda ingiustizia di questa situazione.
Tutti sappiamo, in prima persona o attraverso famigliari o amici, cosa porta con sé la malattia quando ci viene incontro: il panico iniziale, il disorientamento, l’estremo bisogno di trovare qualcuno che ci sostenga e che ci dia forza in un momento in cui ci scopriamo deboli. Tutti i cambiamenti nel pensare alla propria vita; il prendere le misure della nuova condizione e l’adattarvisi; l’energia, il calore e la compassione che chi si stringe attorno a chi sta soffrendo mette in campo, per aiutare il parente, o il compagno, o l’amico in difficoltà; tutto questo è negato a chi ha la sfortuna di incontrare una infezione che porta con sé, più che una condizione fisica, un marchio con cui questa persona, sola, dovrà sempre fare i conti, in ogni sua relazione col prossimo.
Andrea ha una grande forza e resilienza, dà una struttura alla sua vita con lo sport e nello svolgere un lavoro che lo impegna molto, e spera nel futuro di trovare un compagno che lo faccia stare bene, e che lo ami per quello che è. La maggior parte degli uomini che ha incontrato ha accettato la sua condizione, così come – anche se a fatica – lo ha fatto l’ultimo ragazzo con cui ha avuto una relazione. Eppure, non può fidarsi di buona parte dei suoi amici o dei suoi parenti. Si sente al sicuro da solo: “non siamo inseriti in un contesto che genera interesse. Chi ha L’HIV è ai margini, in generale. Non siamo persone che hanno socialmente un peso”.
Chiunque non avrebbe alcun dubbio a offrire conforto ad una persona che scopre di avere una malattia cronica, e anzi molti si dicono giustamente fieri di come affrontano le sfide che la vita pone loro, e ricevono in cambio sostegno e ammirazione. Questa capacità  di amare, questa empatia, è tuttora negata ad alcuni, per il solo fatto che la loro malattia ha a che fare con un argomento come la sessualità.  Ad Andrea, che ha avuto relazioni lunghe e che ha sempre cercato continuità e vicinanza con chi ha frequentato, è stato negato quello di cui avrebbe avuto bisogno in un momento di estrema difficoltà. È svilente per la nostra umanità e la nostra forza voltare le spalle a queste persone e lasciarle sole, per paura o vergogna rispetto un argomento che non porta con sé nessun pericolo.
Il suo consiglio ai giovani è di usare la testa e il cuore – E IL PRESERVATIVO – nel fare sesso: “se si può evitare di star male perché non farlo?” Il nostro auspicio, come associazione che lotta per una provincia in cui sia garantita a TUTTI pari dignità, è che chi legga questo articolo abbia abbastanza rispetto per sé da mostrare il coraggio di accogliere e ascoltare persone che non hanno nessuna colpa, se non quella di subire il pregiudizio degli altri. Non possiamo sapere se fra i nostri amici c’e qualcuno che sta vivendo da solo una lotta che andrebbe combattuta assieme ai propri cari, dunque è nostro dovere verso le persone che ci circondano dimostrare apertura, e sfruttare il primo dicembre per sostenere con forza che queste persone non sono sole, che siamo disposti a dare loro appoggio. Perché per l’HIV, il sintomo peggiore è la discriminazione.
 
Davide Monetto
 
Comitato territoriale arcigay di Cuneo
GRANDAQUEER LGBT*
ufficio stampa Grandaqueer
Cell. 366 2561207
cuneo@arcigay.it

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